La cultura della malattia
Io non so se sia così in tutto il Paese; di sicuro nella zona dove mi muovo ovvero l’Alto Vicentino, i centri medici stanno spuntando come funghi. Si direbbe che sono il business del futuro e del presente di certo.
Scommetto che il mio scritto riscuoterebbe un notevole successo se mi soffermassi a polemizzare sulla gestione della Sanità Pubblica che indubbiamente ha la propria notevole parte in questo fenomeno; ma qui vorrei soffermarmi su altro.
Parto da un’osservazione semplice e pure banale: il dilagare di queste attività indica che l’utenza vi ricorre.
Io per prima lavoro in un centro medico e appartengo ad una categoria professionale [sanitaria, lo specifico] che si occupa di ‘salute’.
Quando tiriamo in ballo il termine ‘salute’…DIN! In testa ci si accende immediato il concetto opposto, ovvero ‘malattia’.
La Medicina Occidentale è interamente imperniata su questa dicotomia: MALATTIA-SALUTE; in particolare nel ‘recupero’ dello ‘stato di salute’ quando viene ad instaurarsi una patologia per qualsivoglia motivo.
Se notate, nel nostro linguaggio comune il termine MEDICINA è strettamente connesso con SALUTE/SANITÀ.
Infatti se io dico CENTRO MEDICO penserete subito a ortopedia, dermatologia, oculistica, ginecologia…ma anche logopedia, fisioterapia, psicologia… [che non sono branche della medicina, ma si occupano di aspetti sanitari] e molto altro.
Se io dico invece CENTRO BENESSERE vi verranno in mente estetica, massaggi, naturopatia, iridologia, olismo, omeopatia…Vero o no?
In che relazione sta dunque la salute con il benessere?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la SALUTE “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente ‘assenza di malattie o infermità’ ”.
Quindi i due termini vengono talora usati come sinonimi, ma non indicano la medesima ‘cosa’. Ma poi: di CHE COSA si tratta?
Pure nel nostro quotidiano ci ritroviamo in conversazioni tipo:
“come stai?” “insomma così così…però almeno c’ho la salute”.
Quindi salute – in questo caso assenza di malattia – pare una condizione necessaria ma non sufficiente per dire “sto bene”.
Il benessere quindi è la versione ‘di lusso’ della salute? Il livello PRO ADVANCED? Può darsi.
Molti di noi concordano con l’OMS e per affermare di ‘stare bene’ è necessario:
- assenza di malattia;
- benessere fisico/mentale/sociale ossia un qualcosa in più, un non so che… [che abbia a che fare con la felicità?! Oh, caspita, rischio di infilarmi in un ginepraio!]
Ma se salta la condizione 1. diviene dunque impossibile sperimentare stati di benessere?
Molti direbbero di sì – e non posso dar loro torto.
Si ferma tutto lì dunque? Siamo dunque condannati che al primo insorgere di disagio, che mina alla base lo stato di salute, non ci sarà più possibile stare bene? Pensiamo ad esempio alle patologie genetiche: tutti spacciati. Molte persone ahimè le approcciano proprio così.
Personalmente, mi rifiuto di arrendermi a questo. Mi rifiuto di credere che fuori dal ‘completo stato di assenza-di-malattia’ non sia possibile star bene.
L’assenza di infermità è davvero una condicio sine qua non per il benessere?
Vorrei introdurre allora due altri concetti collegati: quello di dolore e quello di sofferenza.
Potremmo considerare la sofferenza una ‘condizione di tormento’ causata dal dolore; tale condizione tuttavia deriva da una certa elaborazione psicoemotiva – ossia da un’attribuzione di significato – dell’esperienza nocicettiva [lo stimolo doloroso di per sé, ad esempio la ferita ad un arto] ma non ne è un’automatica conseguenza! Ebbene sì, perché non tutti gli stimoli dolorifici vengono percepiti come spiacevoli – e quindi causa di sofferenza, anzi.
Chiarito questo, possiamo concordare che non sempre una malattia comporta dolore e che non sempre un dolore comporta sofferenza.
Non tutte le patologie comportano inevitabilmente dolore e/o sofferenza. Difficile vederla a questo modo?
Tuttavia è l’unico modo per non ingabbiarci e annichilirci.
Penso inoltre che molta sofferenza sia legata al nostro rifiuto che la malattia, il decadimento, la morte siano parte integrante della vita e dell’esistenza. Sto suggerendo forse di rigettare i progressi della medicina occidentale? Assolutamente no. Oltretutto va il mio pieno rispetto alle libere scelte personali in questi casi.
Dolore e sofferenza sono segnali importanti da ascoltare: essi ci dicono che qualcosa non va [spesso anche ‘cosa’…e anche senza andar troppo sul simbolico!] e ignorarli non è saggio.
Le nostre nonne spesso affermavano che si viene al mondo ‘solo per tribolare’. Ma oggigiorno la vita è più agiata di cent’anni fa, viviamo in condizioni decisamente migliori: negarlo a fronte di una triplicazione della popolazione mondiale e un raddoppio dell’aspettativa di vita, sarebbe un’enorme superficialità.
Forse è stato questo progresso a farci illudere di poter essere invincibili e immortali, tanto da chiudere in uno sgabuzzino l’idea stessa di morte e di malattia, appunto. Negligerla in questo modo, ci sta aiutando ad affrontarla meglio?
A me pare proprio di no.
Terapie specifiche, palliative, alternative, tutto quel che volete: sono strumenti potenti sul piano organico e psicologico.
Pure ipnosi e psicoterapie possono essere coadiuvanti preziosi in situazioni di dolore e sofferenza, proprio per il loro impatto al livello psicoemotivo.
Reagiamo a decessi e patologie come fossero profonde ingiustizie nei nostri confronti: ma chi mai si merita danno e patimenti?
Rubando le parole di una preghiera indiana, ovvero che tutti gli esseri viventi possano rimaner liberi dal dolore, credo che dovremmo imparare una lezione importante: prendiamoci ‘cura’ della nostra ‘salute’ quando ce l’abbiamo.
Farlo dopo che l’abbiamo ‘persa’, la fatica è doppia e il risultato non garantito.
Se proprio vogliamo rifuggire la morte, facciamolo godendo della vita che abbiamo: ricaviamoci il tempo quotidiano per fare ciò che amiamo, coltiviamo le nostre passioni, svincoliamoci dall’ansia del giudizio altrui, dai timori di non essere all’altezza, o di deludere qualcuno. Liberarsi dai condizionamenti non significa divenire ‘antisociali’ o criminali, bensì riconoscersi la centralità nella propria esistenza, riattribuendosi il ruolo di artefice e attore protagonista della propria vita, assumendosi le proprie responsabilità [ma solo le proprie! Quelle altrui, si lasciano agli altri!] e l’immenso potere che si ha: quello di scegliere.
Non voglio trascurare che vi sono poi [ma molto meno frequenti di quanto si sarebbe portati a pensare!] situazioni in cui il margine di ‘libera scelta’ è ridotto [ma mai nullo!]. In quei casi, ancora una volta, non ci si può arrendere alla sofferenza! Quando ricordiamo che essa è l’esito di una elaborazione ci accorgiamo di poter, foss’anche solo per una centesima parte, intervenire su tale elaborazione! E modificarne il risultato. Agire sulla percezione degli eventi e sul significato che vi si attribuisce è uno degli obiettivi della psicoterapia. Ma certamente non è l’unica via e ciascuno può trovare la strada più adeguata a sé.
Ciò che mi preme ribadire è che il benessere e la felicità vanno costruiti ogni giorno: non quando ormai se ne sono andati.
Non nell’affanno di una corsa ad ostacoli, contro il tempo, perché ci si è accorti tardi; ma con la calma e la fiducia con cui si coltiva un giardino: è necessaria la pazienza dell’attesa, la speranza nelle gemme e soprattutto la costanza delle cure.
Dott.ssa Daniela Bonato
Psicologa e Psicoterapeuta
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