Violenze sessuali
Violenze sessuali, adesione all’autorità e risignificazione del contesto a posteriori
Il 22 febbraio 2022 è uscita la notizia di un medico di Catanzaro, in servizio presso l’Ospedale di Soverato, arrestato per violenze sessuali su 63 pazienti.
Non si trattava di un falso medico: lui è cardiologo, ma si spacciava per ginecologo.
Vorrei andare oltre il comprensibile sentimento di sdegno e orrore che la notizia d’impatto può suscitare per proporre una riflessione critica sull’architettura del fenomeno.
Vorrei inoltre fare un inciso: quando si legge il termine violenza sessuale non ci si deve immaginare un’aggressione fisica con grida agghiaccianti – della serie: come hanno fatto i colleghi nei vicini ambulatori a non accorgersi? – tutt’altro.
La violenza e l’abuso sono spesso subdoli e utilizzano la manipolazione dai toni affabulanti e coercizioni infide che lì per lì potrebbero non suscitare alcun senso di allarme in chi le riceve. È appunto su queste coercizioni che mi soffermo.
Com’è possibile che più di 60 donne abbiano subìto atti del genere? Come è possibile che non abbiano denunciato? Erano tutte stupide? Decisamente no.
I dettagli pubblicati non permettono di sapere se tutte ricevessero lo stesso trattamento, che viene sintetizzato dai giornali «col pretesto di effettuare visite mediche, compiva sulle stesse atti sessuali o le induceva a compiere atti sessuali con l’uso di oggetti di forma fallica» e «attraverso l’utilizzo di una telecamera si procurava indebitamente i video della visita delle pazienti».
Non viene quindi specificato che tipo di ‘atti sessuali’ venissero agiti, ma in questa sede è irrilevante.
Com’è possibile che 60 donne adulte non si siano sottratte a queste ‘violenze’?
Mi vorrei agganciare al famoso esperimento di Milgram degli anni ’60; ben consapevole che le spiegazioni sono raramente esaurienti e che la mia lettura dei fenomeni è sempre parziale.
Lo psicologo americano Milgram condusse uno studio che indagava il comportamento dei soggetti ai quali un’autorità, nel caso specifico uno scienziato, ordinava di eseguire delle azioni in conflitto con valori etici e morali dei soggetti stessi – ovvero infliggere delle scosse [in realtà finte] ad un individuo nell’altra stanza [che era il complice dello sperimentatore e che fingeva con urla via via più lancinanti all’aumentare dell’intensità delle scosse].
L’esito dell’esperimento dimostrò che nonostante i partecipanti – sottolineo volontari – mostrassero sintomi di tensione e protestassero verbalmente, una considerevole percentuale di questi obbedì pedissequamente agli ordini fino ad infliggere il voltaggio massimo, che avrebbe quasi ucciso l’altra persona.
Com’è possibile che accada una cosa del genere? Erano forse ipnotizzati? – vi assicuro di NO [ma sul pregiudizio FALSO di ‘perdere il controllo’ in ipnosi tornerò un’altra volta]
I partecipanti erano perfettamente in grado di comprendere il compito e di controllare le proprie azioni. Somministrare le scosse – che essi reputavano vere – era un atto intenzionale fatto per la ricerca scientifica, per un progresso nel sapere [più o meno gliel’avevano venduta così…], per un bene più alto.
Com’è possibile che persone adulte, senzienti, consenzienti, capaci di ragionamento e con codici morali condivisi dalla società, si spingessero ai limiti della tortura solo perché veniva loro ‘ordinato’?
Questo stupefacente risultato è stato ricondotto alla creazione di uno stato eteronomico in cui i partecipanti – ignari degli artifizi – non si consideravano più liberi di intraprendere condotte autonome, ma si percepivano strumento per eseguire comandi.
Per riprodurre uno stato eteronomico pare necessaria la compresenza di tre fattori:
- percezione di legittimità dell’autorità – nel caso in questione lo sperimentatore incarnava l’autorevolezza della scienza;
- adesione al sistema di autorità – l’educazione all’obbedienza fa generalmente parte dei processi di socializzazione;
- le pressioni sociali – disobbedire allo sperimentatore avrebbe significato metterne in discussione le qualità oppure rompere l’accordo fatto con lui.
I soggetti dell’esperimento insomma finivano per non sentirsi moralmente responsabili dei propri agiti, ma esecutori di una volontà esterna e superiore.
Veniamo quindi al nostro falso ginecologo di Catanzaro:
- L’ambiente ospedaliero, il camice, le targhe di laurea annessi e connessi davano certamente la legittimazione come autorità – vi è ancora una certa riverenza nei confronti la categoria medica;
- Nel sistema di cura occidentale la potente asimmetria tra il medico – esperto – e il paziente che si rivolge a lui, fa sì che quest’ultimo si adegui a ciò che viene richiesto nel setting ambulatoriale senza tante repliche;
- La pressione sociale avvertita in particolare in uno stato di ‘fragilità’ – suppongo infatti che queste donne si rivolgessero al finto ginecologo in quanto affette da qualche forma di disturbo – e l’implicita attribuzione di fiducia proprio perché dipendente di una struttura pubblica sanitaria, con l’accordo preso implicitamente nel prenotare una visita.
Gli elementi sembrano esservi tutti per ricreare in quell’ambulatorio un transitorio stato eteronomico con l’effetto di ridurre l’autopercezione di controllo e autonomia decisionale in quelle pazienti.
Immagino che in loro risuonasse qualche campanello del tipo «che strana sta cosa che mi chiede di fare…» ma che con più o meno facilità mettessero a tacere con la solita retorica «è lui l’esperto! Lui sa cosa mi serve! Lo pago pure» sostenuta da «Signora, si fidi di me che so io cosa le serve» argomentato magari con la storiella di «approcci innovativi studiati all’estero e non ancora diffusi in Italia».
Vengo ora al secondo quesito: Come è possibile che 60 donne non abbiano denunciato?
Premetto che sottolineerò una sfumatura differente da quella più inflazionata, e pur validissima, del «si vergognano, si sentono in colpa, le vittime si sentono responsabili…» – che ripeto, non nego ma non approfondirò in questo frangente.
Ancora l’esperimento Milgram illumina su un altro aspetto interessante del cosiddetto stato eteronomico.
L’obbedienza – così come ogni percezione, attribuzione, vissuto, atteggiamento e sentimento umano – dipende anche dalla definizione del significato della situazione.
Ogni situazione è infatti caratterizzata da una propria ideologia/teoria – una cornice di senso – che attribuisce significato agli eventi che vi accadono, e fornisce la prospettiva grazie alla quale i singoli elementi acquistano coerenza tra loro.
Cosa voglio dire? Il contesto ‘visita ospedaliera’ ha impliciti dei copioni che prevedono ruoli: medico e paziente; regole: il paziente prenota e paga, il medico offre la prestazione professionale; scambi comunicativi specifici: dal banale ‘darsi del lei’ al fatto che il medico impartisce direttive e il paziente le esegue «si sieda sul lettino, prego. Alzi la maglia che la visito»; e che danno modo alla scena si svolgersi e indicano agli attori come muoversi.
Come ben illustrò Erving Goffman nel suo testo La vita quotidiana come rappresentazione, tutte le nostre interazioni umane seguono regole implicite di cui non siamo consapevoli, salvo nel momento in cui esse vengono violate – suscitando ilarità, sconcerto o fastidio e la sensazione che vi sia stata una ‘mancanza di rispetto’ verso di sé e verso un fantasmatico codice sovraordinato di norme sociali.
Avete mai provato al ristorante ad andare ad accomodarvi al tavolo di una coppietta di estranei, senza neppure chiedere il permesso? – Garfinkel, uno sociologo [non Garfunkel che cantava con Paul Simon!] conduceva divertenti studi in questo campo – Di per sé non è mica un reato intromettersi in una dinamica amorosa a due, ma certamente suscitereste delle intense proteste e un notevole disappunto negli astanti.
Tanto che a molti di voi non verrebbe proprio in mente di farlo…perché? Perché non si fa! Punto! – alla meglio solo come sfida, pegno, burla o giochetto da addio al nubilato/celibato in cui appunto la cornice ‘festeggiamenti pre-nuziali’ attribuisce un senso a quella bizzarria che altrimenti non si farebbe mai!
Tornando all’esperimento del 1961, come riuscivano i partecipanti a portare a termine il compito – ritenuto reale – di tormentare altri esseri umani con la corrente?
[è chiaro come l’esperimento tentasse di ricostruire il funzionamento dei regimi repressivi]
La spiegazione fornita fu che i soggetti assumevano il ruolo di semplice agente di volontà altrui, riuscendo così a non sentire come propria la responsabilità delle azioni che attuavano – un po’ come quando diciamo «ero ubriaco. Tutta colpa dell’alcol»
Se generalmente le persone agiscono in conformità con codici di norme socialmente condivise nel proprio gruppo di appartenenza, cosa avviene nelle situazioni in cui esse si trovano in contraddizione? Ad esempio quando vi sono da una parte i moniti contro atti di forza e violenza e dall’altra la concessione di reazioni aggressive a determinati stimoli. In questi casi la probabilità di attuare comportamenti altresì sanzionati [come l’infliggere dolore con scosse elettriche] viene di volta in volta influenzata dalla percezione individuale della situazione – o meglio dall’attribuzione di significato – che determina quali norme siano pertinenti al contesto e debbano pertanto essere seguite.
Dal momento in cui il soggetto accetta la definizione della situazione proposta dall’autorità – nell’esperimento di Milgram: ‘fulminalo per amore della scienza’ – questa finisce col ridefinire un’azione distruttiva non solo come ragionevole ma anche come oggettivamente necessaria.
Vi sembra assurdo applicare questa lettura anche ai fatti di Catanzaro? Eppure potrebbe essere andata proprio così. Vi dipingo la scena.
Una persona preoccupata per un problema di salute decide di rivolgersi ad un professionista, magari un luminare, che proprio in virtù della sua lunga esperienza e immane conoscenza propone un trattamento innovativo che potrebbe risolvere – quasi miracolosamente – il problema che non ha trovato altrove un sollievo.
Perché non credergli? Riceve in ospedale, curato nell’aspetto, ha un modo di fare accogliente e carismatico…perché ci si dovrebbe insospettire? Perché non fare ciò che dice? Se gli altri rimedi finora non hanno funzionato, magari lo farà proprio questa pratica insolita che sta suggerendo…che pare necessaria.
A quale ultima riflessione posso giungere quindi?
– Attenti che ora la sparo grossa.
Fintanto che le pazienti attribuiscono a quel setting un significato sanitario di visita, pur con qualche perplessità, potrebbero non vivere l’esperienza di ‘violazione/violenza’. Potrebbero esperire un disagio non dissimile da quello di qualsiasi altra pratica ginecologica-ostetrica o proctologica. È il contesto – in questo caso medico – a farle sentire tutelate perché è appunto la cornice di senso a dare forma alla sceneggiatura.
Se una persona dice ad un’altra «spogliati» i contesti solitamente sono due: si tratta del/la partner, e la svestizione prelude probabilmente un incontro sessuale, oppure si tratta di un/a sanitariə che effettua una visita.
In qualsiasi altro contesto, salvo forse tra clienti e spogliarellistə o dall’estetista, tale richiesta sarebbe rigettata e creerebbe allerta. Ma finché la donna – come all’ospedale di Soverato – è convinta che l’uomo le stia chiedendo di togliersi i vestiti, o toccarsi, o fare altro, perché ‘fa parte della visita’ ella continuerà ad attribuire a quelle richieste un significato benevolo e necessario per un obiettivo di interesse personale.
Se si è convintə che un trattamento sia necessario e utile alla propria salute, perché mai si dovrebbe denunciare il medico? Soprattutto se consideriamo che gli atti richiesti a queste donne non erano fisicamente dolorosi o nocivi sul momento.
ALT! Non sto dicendo che le pazienti avrebbero dovuto sorvolare!
Né che in qualche modo siano responsabili di quanto accaduto!
Non giustifico in alcun modo quel medico che ha commesso dei reati infamanti. Auspico che gli venga revocata l’abilitazione alla professione per la vita, con tutte le condanne penali del caso.
Tuttavia non immaginiamoci che queste 63 donne uscissero sconvolte e traumatizzate dallo studio di quel falso ginecologo: una parte di loro forse trovò nell’immediato inadeguata la pratica richiesta, molte altre hanno probabilmente sviluppato a posteriori il vissuto di ‘abuso’.
Quando? Quando è stato comunicato loro la ‘verità’ sulla qualifica professionale: è lo shift da una cornice di senso all’altra – da medico a guardone – che crea la sensazione di esser state violentate, sebbene lì per lì non sembrava esser successo nulla.
Questo avverrebbe per chiunque di voi scoprisse che il proprio ginecologo o urologo – una figura che in qualche modo entra in contatto con l’intimità del corpo – non è chi dichiara di essere. Anche nel caso in cui non abbia svolto alcun atto propriamente sessuale su di voi! Solo il fatto di ‘sapere’ che lo sguardo non era con il filtro – dato dalla cornice – medico, bensì altro, vi farebbe sentire invasi.
A mio avviso questo è uno dei motivi per cui alcune molestie e abusi non vengano denunciati nel breve periodo.
È la ricostruzione successiva – con le ridefinizioni di significato – tanto quanto lo svolgersi dell’accaduto, a rendere l’evento ‘quello che è’.
Con ogni probabilità se ai partecipanti di Milgram alla fine dello studio fosse stato raccontato – ancora una volta mentendo – che non vi era alcuna ricerca, che lo scienziato era solo un ciarlatano, e che avevano torturato senza scopo gli individui nell’altra stanza, molti di loro si sarebbero traumatizzati di esser stati capaci di tali atrocità – venendo a mancare la cornice di senso iniziale, ossia il sacrificio per il progresso scientifico.
Considerazioni a margine
Come professionisti sanitari abbiamo un’enorme responsabilità insita proprio nell’asimmetria del rapporto terapeutico, che di per sé non è né buona né cattiva.
Abbiamo la responsabilità di ‘usare’ adeguatamente questo potere – che ci permette di definire la situazione in un certo modo – al fine di promuovere il benessere delle persone che si affidano a noi.
Non è sempre facile, ma è il compito che abbiamo scelto.
Dott.ssa Daniela Bonato
Psicologa e Psicoterapeuta
P.I. 03798310243
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